È difficile mettere nero su bianco i propri pensieri su una questione così divisiva e sulla quale basta una parola di più o di meno, per finire in pasto a chi ha fatto dell’attivismo performativo una professione, e non aspetta altro se non questo.
Ci ho provato in più occasioni ad esprimere la mia visione su questo conflitto e oltre ad inimicarmi sempre di più quelli che pensano di essere detentori della verità dell’universo (oltre che essere i nuovi Montanelli), ci ho anche sofferto personalmente, e non lo dico per fare la vittima, ma per rendervi partecipi del fatto che tenere una posizione impopolare, a volte possa essere anche difficile da sostenere sul piano psicologico.
Dirò quello che penso senza filtri.
La prima constatazione che non posso non fare, è che nel mondo ci sono conflitti tremendi e che ogni giorno provocano vittime, di cui nessuno parla. Penso allo Yemen, alla Siria, al Congo e la lista continua. Io ad esempio mi sono occupata dello Yemen quando sui social non ne parlavano in molti (non era “in trend”) correva l’anno 2019, anno in cui ho aperto il mio profilo Instagram, ero inesperta e sicuramente avrò trattato l’argomento in maniera superficiale, ma d’altronde avevo 18 anni, e avevo appena cominciato. Questo fatto non lo menziono per farmi bella, ma solo per dimostrare che c’è una coerenza tra ciò che dico e faccio - non parlo e basta - mi comporto di conseguenza.
La seconda constatazione è che molte persone hanno bisogno di sentirsi parte di qualcosa. La ‘causa palestinese’ offre a molti l’occasione per essere parte di un movimento e sentirsi socialmente utili - peccato che poi tutto si fermi a qualche storia sui social e non si traduca in azioni concrete. Conosco persone che hanno condiviso la storia “All eyes on Rafah”, che quando vedono una persona di colore cambiano strada o nel peggiore dei casi scappano - e questo rende bene l’idea del livello di consapevolezza e impegno che si cela dietro alla ricondivisione di una storia Instagram.
La terza constatazione è che il mondo non può essere diviso in buoni e cattivi. Badate bene - la mia non è un’invettiva contro il politicamente corretto o un modo per fare l’alternativa - ma un dato di fatto. Soprattutto nei conflitti, fare il conto dei morti e dire che delle vite contano di più o meno di altre, è un qualcosa di agghiacciante e disumano. Ed è esattamente quello che sta accadendo in questo conflitto, sia da una parte, che dall’altra. Campagne di sensibilizzazione come questa, non fanno altro che aumentare la polarizzazione, la disinformazione e la semplificazione.
E qui arrivo alla quarta ed ultima constatazione, non tutti quelli che non difendono a spada tratta le ragioni dei palestinesi, sono intimoriti dall’inimicarsi Israele, perché “grande potenza economica” (andando ad alimentare così varie teorie del complotto). A seguito del mio post in merito a questa campagna di sensibilizzazione, più di una persona ha insinuato che avessi dei legami con Israele, e di una mia presunta “paura” nell’espormi. Siamo al fantascientifico ovviamente. È incredibile come ormai non sia possibile avere delle posizioni di equilibrio - se non ti schieri - in qualche modo sei un venduto.
Concludo consigliandovi un bellissimo pezzo che ho conservato uscito sul Los Angeles Times, si tratta di un’intervista uscita ancora a Febbraio 2024, a due amiche - Angelina, palestinese e Adar, israeliana, credo che restituisca bene il senso di ciò che provo a comunicarvi - ovvero che l’obiettivo dev’essere quello di unire, e non dividere: https://www.latimes.com/world-nation/story/2024-02-11/tested-by-war-an-unlikely-friendship-persists
Alla prossima (cercherò di rispettare il giorno di pubblicazione ufficiale che sarebbe giovedì, ma faccio fatica, perdonatemi!)
Un abbraccio,
Marta